Il processo odierno di apertura al commercio mondiale ha delle peculiarità ben precise che lo differenziano dai processi analoghi delle epoche precedenti. L’attuale fase di globalizzazione, appare sempre più essere una combinazione tra l’apertura agli scambi e la diffusione delle nuove tecnologie di informazione (ICT Information and Comunication Tecnology). Tale combinazione ha generato diversi fenomeni assolutamente senza precedenti tra i quali ve ne uno di assoluto rilievo, ovvero la frammentazione a livello mondiale della produzione dei beni, dovuta al fatto che l’attuale livello di sviluppo della tecnologia comunicativa consente oggigiorno passaggi immediati dei flussi informativi tra differenti località spesso molto distanti tra loro. Inoltre, un’altro fattore che caratterizza questa fase di ascesa della globalizzazione, è certamente riconducibile allo sviluppo dei sistemi di trasporto, che hanno notevolmente ridotto l’impatto delle distanze geografiche sugli scambi facilitando gli spostamenti di beni e persone e attenuandone i costi. Lo sviluppo dei processi di globalizzazione, ha a sua volta determinato una maggiore omogeneità nei gusti dei consumatori di Paesi diversi, provocando un strano fenomeno dicotomico per le imprese in relazione alla loro strategia. Se da un lato le imprese sono impegnate nel differenziare la loro offerta personalizzandola secondo i gusti dei consumatori attraverso l’implementazione dell’estensione orizzontale della stessa e allo stesso tempo sviluppando in senso verticale la propria catena del valore, dall’altro questo fenomeno di omogeneità di bisogni come ultimo risultato del processo di globalizzazione, consente alle imprese di orientarsi anche nel perseguire maggiori economie di scala e di specializzazione attraverso la standardizzazione di processo e di prodotto.
Dal 1950 ad oggi, il rapporto tra le esportazioni e il PIL è più che raddoppiato, grazie anche ad un costante mutamento della tipologia degli scambi che sempre più si sono concentrati verso beni intermedi ovvero prodotti utilizzati come input per la produzione di altri beni. L’exploit degli scambi di beni intermedi certamente può essere associato ai prodotti legati alla stessa impresa multinazionale che per effetto di una sempre maggiore globalizzazione hanno sempre de-localizzato le loro sedi produttive nel corso degli anni, dislocandole in diversi Paesi.
La forte crescita del commercio inter-industriale tra Paesi sviluppati a partire dagli anni ’60, è sinonimo di una convergenza sempre più marcata delle economie in termini di composizione dei settori determinata dalla volontà delle imprese di massimizzare le economie di scala e i processi di innovazione a livello internazionale facilitati dal diffondersi della conoscenza tecnologica del numero di beni simili in circolazione. Di natura diversa è la crescita degli scambi tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. Essa può certamente essere relazionata all’estensione della catena del valore a monte, dovuta alla strategia delle imprese nel cercare di trarre del vantaggio dai minori costi dei fattori produttivi (risorse e lavoro) delle aree meno sviluppate.
Il processo di internazionalizzazione all’interno della teoria economica viene ad essere definito attraverso lo studio di due fenomeni intrinseci ad esso, il commercio internazionale e gli IDE che sta per Investimenti Diretti Esteri. La scelta tra le tre modalità avviene sulla base di differenti fattori che condizionano la decisione dell’impresa: gli obiettivi, le aspettative, la dimensione dell’impresa, le forme di presenza, il livello di coinvolgimento, la cultura manageriale, la natura del prodotto/servizio e il suo vantaggio competitivo, la presenza di infrastrutture e il grado di apertura al mercato estero.
Il Commercio Internazionale
L’interesse della teoria economica per il commercio internazionale ha inizio intorno alla fine del ‘700, quando due economisti inglesi della scuola classica, David Ricardo e Adan Smith elaborano i le prime teorie sulla scambio tra Paesi.
L’interesse della teoria economica per il commercio internazionale ha inizio alla fine del ‘700, quando due economisti inglesi della scuola classica: Adan Smith e David Ricardo, elaborano le prime teorie sulla scambio tra Paesi.
Adan Smith si concentra sulla “Teoria del Vantaggio Assoluto” secondo la quale la convenienza del commercio internazionale deriva dal fatto che in un Paese A il fattore lavoro nella realizzazione di un certo bene può risultare superiore a quella riscontrabile in un Paese B, mentre nella realizzazione di un altro bene la produttività del lavoro in B può risultare superiore a quella di A. Per ciascuno dei 2 Paesi è quindi conveniente esportare i beni in cui si ha un vantaggio assoluto in termini di produttività del lavoro ed importare l’altro bene.
David Ricardo con la sua teoria del vantaggio comparato, sempre prendendo in esame il fattore lavoro, estende la teoria del vantaggio assoluto, spiegando come il commercio internazionale può essere conveniente anche quando un Paese ha un vantaggio assoluto di produttività del lavoro per tutti i beni presi in esame. Prendendo ad esempio un paese A che ha un vantaggio assoluto in 2 beni rispetto ad un Paese B, vi sarà comunque un bene tra i due, in cui tale vantaggio risulta essere minore. Parallelamente, il Paese B sarà meno svantaggiato nella produzione di uno dei 2 beni. Ecco quindi che sarà conveniente per entrambi i Paesi, uno scambio in cui cui il paese B esporta verso il Paese A il bene in cui è meno svantaggiato in cambio dell’altro bene, mentre il Paese A importi il bene in cui ha minor produttività potendo così dedicare più risorse lavorative a quel bene in cui ha una maggiore produttività. La teoria del vantaggio comparato esalta i vantaggi del commercio internazionale e a quell’epoca ne diventa il manifesto influenzando in termini positivi lo sviluppo degli scambi tra Paesi.
Circa un secolo dopo, in piena epoca neoclassica, la teoria del vantaggio comparato viene estesa dal modello proposto da Heckscher e Ohlin (modello HO) che propone una interpretazione degli scambi commerciali considerando non solo il lavoro (L) come gli economisti classici, ma anche l’altro fattore principale della produttività ovvero il capitale (K). Il modello prende in esame una situazione in cui vi è uno scambio tra 2 Paesi rispetto a 2 beni di consumo, l’interazione tra i 2 Paesi a parità di tecnologie di produzione, porterà ognuno dei 2 Paesi ad esportare il bene per cui viene richiesta in misura relativamente più intensa il contributo del fattore (L o K)) di cui dispone di una dotazione più abbondante almeno in termini relativi rispetto all’altro. Ergo in base a questa teoria i Paesi a più forte dotazione di capitale tenderanno ad esportare i beni in cui vi è una maggiore incidenza del fattore capitale, (prodotti capital-intensive) viceversa i Paesi a più forte dotazione del fattore lavoro esporteranno quei beni in cui tale fattore ha maggiore incidenza (prodotti labour-intensive).
La verifica empirica però esalta la debolezza di questo modello, il cosidetto paradosso di Leontieff dimostrò che gli Stati Uniti negli anni ’50 malgrado fossero il Paese a maggior dotazione del fattore capitale esportassero maggiormente beni labour-intensive, inoltre al di la della debolezza empirica il modello HO lascia non poche perplessità sull’ipotesi di partenza che si dimostra essere troppo semplificativa rispetto al mutare del contesto economico, infatti non si tiene conto che le imprese immettono sul mercato nuovi prodotti e che come assunto dalla teoria di Shumpeter capacità imprenditoriale è sinonimo di capacità di innovare. Ecco quindi che proprio la riflessione sul ruolo del progresso tecnologico all’interno del commercio internazionale se da un lato evidenzia un tema che avrà importanti sviluppi, dall’altro evidenzia i limiti delle teorie economiche.
Oltre al mancato riconoscimento del ruolo delle tecnologie un’altra critica che viene mossa alle teorie economiche classiche, riguarda l’incapacità di definire l’importanza della domanda interna, nel senso che affinché determinate produzioni siano vendute sui mercati internazionali, occorre come condizione non sufficiente ma necessaria che vi sia una domanda interna di tali prodotti e solo successivamente si può arrivare all’esportazione delle stesse produzioni in altri Paesi. La percezione che l’imprenditore ottiene dalla domanda interna è fondamentale per determinare il successo di nuovi prodotti sul mercato internazionale. Tale concetto diventa ancora più focale nel caso di Paesi che hanno una domanda interna simile, per cui il commercio internazionale tra questi Paesi si trova ad essere favorito e facilitato. I fattori principali che determinano una domanda interna simile nei diversi Paesi possono essere ricondotti: ai caratteri culturali che connotano il contesto, alle condizioni ambientali, al clima, al reddito pro capite e alla sua distribuzione.
Il commercio internazionale può seguire due differenti strategie; l’esportazione diretta o indiretta.
L’esportazione indiretta rappresenta la forma più semplice di entrata sul mercato internazionale, essa prevede un notevole livello di delega delle attività poiché mentre la produzione rimane nel Paese di origine, la vendita e la distribuzione ergo tutta la parte a valle della catena del valore, vengono demandate a terzi per lo più intermediari. L’impresa ricorre solitamente alla esportazione indiretta quando il mercato estero è residuale rispetto al mercato domestico o anche quando la soglia dimensionale non consente la disponibilità delle risorse necessarie da dedicare ad una espansione diretta verso l’estero ergo non viene trasferita oltre confine nessuna attività della catena del valore e si è costretti a demandare a terzi per non incorrere in investimenti diretti o in cambiamenti organizzativi non alla portata. Il modello dell’esportazione indiretta talvolta viene utilizzato anche da aziende di maggiori dimensioni che hanno un ampio vantaggio competitivo sulla concorrenza in termini di prezzo, qualità del prodotto o segno di valore del marchio. Se i bassi investimenti e quindi il basso rischio di costo, rappresentano il vantaggio principale dell’esportazione indiretta, essa comporta anche degli svantaggi legati alla poca conoscenza del mercato come ovvia conseguenza delle poche informazioni di ritorno sulla dinamica della domanda, sui canali di di distribuzione, e sulle azioni di marketing messe in atto dagli intermediari. Da ciò deriva un ulteriore svantaggio che rappresenta il rischio maggiore per una impresa dell’esportazione indiretta ovvero il rischio di sostituzione con un altro fornitore qualora si indebolisce il vantaggio competitivo originario o si presentano fonti di fornitura più convenienti.Gli intermediari a cui solitamente le imprese si rivolgono sono gli importatori/distributori, i big buyer, gli agenti di acquisto, le case di esportazione, le trading companies e i consorzi all’esportazione.
L’esportazione diretta prevede rispetto alla forma indiretta un rapporto più stretto con il mercato finale, pur mantenendo l’impresa la propria produzione nel Paese di origine. Le attività a valle della catena del valore che vengono date in outsourcing nella forma di esportazione indiretta, qui vengono gestite direttamente dalle imprese esportatrici.
In questo caso, l’impresa istituisce un propria sede estera che ha il compito di coordinare la rete di vendita, di gestire gli ordini, di definire le strategie commerciali e le politiche di marketing. E’ evidente che con l’esportazione diretta l’impresa aumenta decisamente il controllo del proprio mercato estero potendone seguire gli sviluppi e intervenire con tempestività con la propria politica di vendita al cambiare delle condizioni di mercato. Questo è dovuto ad un contatto più diretto con la clientela, ad un flusso di ritorno informativo più denso, ad una maggior protezione degli asset immateriali quali il marchio, ed a una reazione più efficace alle azioni dei concorrenti. A fronte di tali vantaggi, si contrappongono costi più elevati che presuppongono una certa soglia dimensionale dell’impresa al di sotto della quale è molto difficile poter sopportare l’onerosità dell’esportazione diretta sia sul piano economico finanziario che sul piano organizzativo. Le motivazioni che possono portare una impresa a scegliere la modalità diretta per il suo percorso di internazionalizzazione possono risiedere nella volontà di stabilizzare le vendite estere o anche di presentare il proprio prodotto e il proprio marchio con una azione strategica fortemente identitaria. Infine, anche l’esigenza di far fronte all’eventuale specificità del servizio richiesto per la vendita del proprio prodotto, fa si che in alcune aree di business che hanno ad oggetto prodotti su commessa, o prodotti ad elevato contenuto tecnico, l’esportazione diretta diventi una strategia irrinunciabile.
L’entrata diretta sul mercato estero grazie allo sviluppo dell’ITC di questo ultimo decennio, può avvenire anche attraverso il commercio elettronico.
IDE : Investimenti Diretti Esteri
Il fenomeno della globalizzazione è uno dei fattori principali dell’esponenziale crescita degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) che nell’ultimo ventennio ha superato di gran lunga quella del PIL.
In un mondo virtuale, fatto di piccoli Paesi perfettamente concorrenziali e in assenza di barriere al commercio e di costi di trasporto, la bilancia commerciale di ogni Paese verrebbe ad essere determinata dalla teoria del vantaggio comparato, sviluppata da Ricardo e in seguito da Hecksher-Ohlin. Nel mondo reale invece, i flussi di commercio tra Paesi solo in parte rispondono a tali criteri, non a caso gli IDE, contrariamente a quanto proposto dal modello HO, tendono spesso ad andare dove il capitale è più abbondante. L’indagine empirica dimostra che oltre ai fattori enunciati nel modello del vantaggio comparato, ve ne sono altri che influenzano i flussi reali di commercio estero e la strategia di crescita attraverso gli investimenti diretti esteri. Tali fattori, sono riconducibili all’attrattività della domanda, a sua volta riconducibile alla ricchezza e alle dimensione del mercato, e alle condizioni dell’offerta determinate dal rapporto costo/produttività dei fattori produttivi(L e K), dai fattori ambientali, dall’efficienza delle infrastrutture, delle comunicazioni e dei trasporti, dalle competenze delle risorse umane presenti sul territorio e dal livello di sviluppo tecnologico del Paese.
Oltre alla valutazione delle condizioni di domanda e di offerta, le imprese che intendono perseguire gli investimenti diretti, valutano anche la distanza geografica oggi resa meno problematica dallo sviluppo dell’ICT, anche se il concetto di distanza deve essere poi esteso anche alla dimensione culturale che può determinare un fattore di costo anche notevole. Vengono infine ad essere considerati i fattori legati alla stabilità politica, alla burocrazia, al livello di corruzione, alla tutela dei diritti di proprietà non solo materiale ma anche intellettuale, al rischio di cambio e all’efficienza ed efficacia del sistema giustizia.
Oltre a questi elementi di tipo oggettivo, vi sono altri fattori meno misurabili e più legati alla soggettività del decisore, che condizionano la scelta di investire all’estero da parte di una impresa. Tali fattori, determinanti nel giustificare il gap tra il commercio estero potenziale e quello reale, vengono analizzati all’interno di un filone di ricerca definito “ il mistero del commercio mancante”. Questo studio, definisce la disomogeneità dell’informazione rilevante, poiché non accessibile a tutti allo stesso modo, come causa principale del commercio mancante e della mancanza di concorrenza perfetta dei mercati nel mondo reale.
Quindi, oltre alle barriere oggettive e reali, vi sono delle barriere meno visibili e quindi più difficili da abbattere, ed è proprio questo il motivo per cui le imprese in molti casi tendono ad investire prevalentemente nel proprio Paese piuttosto che guardare all’estero come sarebbe consigliato da ragioni prettamente economiche. Più nel dettaglio, queste barriere intangibili possono essere identificate nelle barriere culturali, poiché le imprese sono fatte di persone che tendono a fidarsi di più di ciò e di coloro che conoscono meglio. I moderni sistemi di ITC facilitano non poco i flussi informativi, si può essere informati su tutto, ma essere informati non equivale a conoscere la realtà di un luogo, che si puó declinare nelle persone che vi risiedono, nella loro cultura, nella lingua, nei costumi e in generale in tutto quello che compone il loro capitale umano. Tutto ciò ha certamente un costo specifico e proprio per questo “ceteris paribus” diversi Paesi tendono a commerciare ed a investire verso le loro ex colonie, poiché anche se diventati Stati autonomi sono accomunati dalla lingua, da assetti istituzionali, da alcune norme e da costumi sociali che si rivelano essere simili.
Gli investimenti diretti esteri, possono essere classificati secondo due tipologie, abbiamo gli IDE orizzontali, che prevedono l’acquisizione di siti produttivi esteri per produrre e commerciare sul mercato internazionale gli stessi beni componenti l’offerta per il mercato domestico e gli IDE verticali orientati all’estensione della supply chain con l’acquisizione di siti produttivi esteri al fine di massimizzare le economie di scala e di specializzazione e quindi ridurre i costi di produzione. Ergo non è la commercializzazione del prodotto sul mercato dove insiste il sito produttivo il fine principale di questo modello di investimento internazionale, non di rado infatti, i beni prodotti non vengono commercializzati nel Paese in cui si è investito.
Considerazioni finali
L’internazionalizzazione è quindi il processo che prevede lo spostamento verso l’estero del mercato di riferimento e dei processi aziendali. Quale che sia la modalità scelta per il proprio percorso di globalizzazione, gli obiettivi strategici dell’impresa che sceglie di estendere la propria offerta ai mercati esteri, sono riconducibili ad alcuni ambiti primari:
- la dimensione operativa e finanziaria dell’impresa: il posizionarsi in nuovi mercati, facilita la crescita attraverso l’aumento del fatturato e il conseguente ampliamento dell’organico;
- il vantaggio competitivo e la quota di mercato: l’accesso a nuovi mercati può agevolare il ruolo di leader rispetto ai concorrenti diretti;
- il margine di profitto: che è una pre-condizione per l’esistenza stessa e lo sviluppo delle imprese. Espandersi verso nuovi mercati può dare la possibilità di commercializzare il prodotto verso mercati ricchi che possono essere determinanti nell’aumentare la marginalità media;
- il portafoglio clienti: ampliare il numero di clienti vuol dire diluire il rischio d’impresa e il potere di acquisto che altrimenti pochi grandi compratori avrebbero verso l’impresa soprattutto in riferimento alle PMI;
- accesso a conoscenze e risorse strategiche: che consentono di consolidare o accrescere il proprio vantaggio competitivo.
Ala luce di quanto esposto, si può affermare che, secondo la dimensione economica, l’internazionalizzazione delle imprese è un processo prettamente di tipo strategico che ne presenta i caratteri peculiari quali: il focus sul lungo termine, l’irreversibilità degli investimenti effettuati e la definizione degli obbiettivi attraverso l’analisi dell’ambiente esterno e delle risorse interne all’impresa.
Molto interessante questo excursus storico oltretutto facilmente fruibile da parte dei ” non addetti ai lavori”